
Pandemia e abolizione del futuro.
[ Nel giro di un anno, siamo stati chiusi, liberati, riconfinati e deconfinati a tal punto che non sappiamo più nemmeno dove ci troviamo nella scala del tempo. Siamo davvero nell'aprile 2021 o siamo diventati prigionieri di quell'aprile 2020 in cui abbiamo scoperto il fascino molto relativo del primo lockdown? A lungo andare, il passato è diventato il nostro presente, e il presente stesso è nel passato.
Collettivamente, non progrediamo più. Le nostre vite si sono congelate. Il nostro frenetico desiderio di proiettarci nel futuro si scontra con le curve della pandemia, che pure si ripetono mese dopo mese come onde magnetiche le cui oscillazioni non cambiano mai. Questa potrebbe essere una definizione dell'inferno: l'abolizione del futuro nel momento in cui il presente e il passato si fondono nella stessa temporalità, quella della ripetizione ad nauseam di una reclusione perpetua.
Un ipotetico ostaggio di un orologio o di un calendario finisce per perdere la cognizione del tempo al punto che quando arriva il momento della sua liberazione, non sa più dire in che anno si trova. Ostaggi, ecco cosa siamo diventati, solo che questa volta i rapitori non sono individui incappucciati ma un virus invisibile che si presenta in altrettante varianti.
Più tardi, quando il vaccino avrà finalmente trionfato sul virus, quando ripenseremo all'anno e mezzo che abbiamo trascorso in prigione, troveremo impossibile orientarci nel labirinto del tempo. Il passato ci si presenterà come una massa grigia e inerte, un insieme sordo e monotono in cui le nostre vite assomiglieranno ad una traversata immobile, una specie di anticipazione della morte, quando il tempo cessa di esistere e siamo sradicati per sempre dal movimento impetuoso della vita.
I nostri appartamenti non sono diventati forse le nostre bare visto che giorno dopo giorno ci tengono prigionieri tra le loro quattro mura? Vorremmo fuggire da loro, volare via da loro, andarcene e non tornare più, ma questi sono desideri impossibili. Siamo condannati a non lasciarli mai, come quei prigionieri dei secoli passati che, ogni sera, dopo aver lavorato nei campi di lavoro forzati, tornavano nelle loro celle.
Le nostre vite sono diventate strette. Hanno assunto l'aspetto ripetitivo della vita dei nostri anziani quando, svuotati di ogni forza e desiderio, se ne stanno lì seduti sulle loro sedie, a fissare un passato che sta scomparendo. A parte la mera presenza, non sono più realmente nel mondo. Questo è oggi il nostro modo di vivere. Rannicchiati in noi stessi e privi di desiderio ].
Laurent Sagalovitsch

Contro la Città
"La città è un nemico. Protezione in cambio di sfruttamento: questo è ciò che la civiltà urbana porta con sé. Al leader-delinquente, al potente aristocratico si è sostituito il delinquente eletto con una brigata di amministratori, ma il risultato non cambia. Tutto, nella città, suggerisce diseguaglianza e assenza di libertà. I sobborghi – mostruosi formicai, favi di cemento che al mattino vomitano il loro grumo umano per riceverlo di ritorno la sera – mostrano il mondo della moderna schiavitù, privo di riti. La città disintegra la campagna. La città produce potere e controllo. Nella città-capitale sono concentrati tutti i più articolati sistemi di sopraffazione dell’individuo. Se guardiamo alla storia recente capiamo che il primo atto di una rivoluzione è la costruzione di barricate. Si distruggono i marciapiedi, si strappano le pietre, si bloccano le strade. I cittadini bloccano la città. Danno fuoco agli edifici, prendono d’assalto il palazzo presidenziale, il parlamento. La folla ha un istinto sicuro: vuole distruggere la città, la cittadella del potere, la causa delle sue disgrazie".
E. Limonov

Konya. Lungo le orme dei dervisci rotanti
di Marco Cesario
Sull’isola di Burghazada, nel Mar di Marmara, mentre mi arrampicavo sulla sommità di un promontorio che dominava un tratto d’isola ricoperto da pini mediterranei e siepi di lauro, ricordai una frase di Dhu âl Nûn âl Misrîun, maestro sufi del IX secolo che lessi in un libricino della Moschea di Alaeddin a Konya, la Città dei Dervisci: «Prima di compiere il viaggio credevo che le montagne fossero montagne e i mari fossero mari; durante il viaggio scoprii che le montagne non sono montagne e i mari non sono mari; ed ora che sono giunto so che le montagne sono montagne e i mari sono mari».
Ricordai le allegorie del Mantiqu't-Tayr, ‘Il Verbo degli Uccelli’, il poema del poeta persiano Farid al-Din Attar che avevo letto un giorno in una bellissima edizione istoriata. Era la storia di un lungo viaggio di uno stormo di centomila uccelli alla ricerca del loro re, Simurgh. Per giungere a destinazione, gli uccelli dovevano attraversare sette valli: Amore, Conoscenza, Distacco, Unificazione, Stupore ed infine le valli della Privazione e dell'Annientamento. Era un viaggio mistico, pieno d’insidie e prove che l’anima doveva affrontare prima di ricongiugersi con il divino. Il nome Simurgh signficava ‘trenta uccelli’ ed infatti tanti ne giunsero a destinazione scoprendo di essere una sola cosa con il loro Re.
Sul far della sera avevo sentito il canto di un’upupa mentre passeggiavo tra boschi di pini odorosi. Quel canto, secondo le tradizioni mistiche, rappresentava la voce del maestro sufi che indica al viandante la retta via. Pensai allora che non mi ero perso e che c’erano forse maestri sulla mia strada e chissà quanti altri segni che la mente offuscata da pensieri grevi non mi permetteva di carpire nel tessuto accidentato della realtà.
Seduto ad ammirare lo spettacolo della natura al tramonto, mi ricordai di quando visitai il Mausoleo di Mevlana, a Konya. Un giovane ragazzino, che intravide la mia sofferenza a mescolarmi, in quell’alto luogo di spiritualità, con sciami di turisti in fila dietro ridicole bandierine, m’invitò ad assistere ad una vera cerimonia fuoi Konya.
Dopo alcuni chilometri in auto, entrammo nel retro di una piccola moschea il cui minareto era decorato da mattonelle verdi e azzurre. Attraversammo un giardino curato, lui mi congedò con un gran sorriso ed io mi accomodai, scalzo, sui tappeti di una grande sala silenziosa sulle cui pareti si aprivano librerie di legno scuro con testi sacri dalle diciture d’oro in lingua araba e persiana. Il pavimento era di legno vecchio ed odorava di cera d’api. La sala sembrava emanare un’energia misteriosa. Rimasi in silenzio per diversi minuti. Il mio cuore iniziò a battere più lentamente. Alcuni minuti dopo iniziò il rito con l’inno di lode al Profeta, il naat. Da un lato della sala c’era il gruppo di mëtrëp, i musici ed i cantori. Dall’altro lato vidi lo shaykh, il maestro che conduceva la cerimonia. Io ero immobile. Non sentivo né caldo né freddo. Tutto il mio spirito era proiettato in avanti, verso il maestro ed i cantori in attesa della Sema, danza cerimoniale dei Mevlevi, i Dervisci Rotanti, la cui confraternita era stata fondata nel XIII secolo dal poeta persiano Rumi.
La cerimonia iniziò con il suono del ney che si propagava per tutta la sala. Era il taksim, ovvero l’incipit della cerimonia. Dopo un po’ sentii un suono di tamburi, che secondo le leggende sufi simbolizzava la creazione del mondo. Finito l’intro cosmologico, si levò l’inno mevlevi con cui si dava inizio al Sema. Il coro e l’orchestra, che sembravano diffondere un un’unica armonia nella quale io mi sentivo come fuso, introdussero l’ingresso del maestro e dei danzatori. Tra quest’ultimi riconobbi immediatamente il ragazzino che mi aveva raccolto tra le miserie del turismo su scala globale. L’osservai con stupore. Non potevo credere che un ragazzino così giovane potesse essere un derviscio rotante. Poco dopo, quando i dervisci, con i loro alti cappelli di feltro marrone e la tunica di lino bianca iniziarono a ruotare lentamente in senso antiorario come trottole mosse da una mano invisibile, il ragazzino si trasfigurò. Era leggero, il suo viso sembrava estasiato. Ruotava con movimento isocrono e costante, quasi senza sforzo, come se fosse una sfera, un pianeta che gira e segue la sua orbita nello spazio.
Io lo guardavo incantato senza poter cogliere, con mente conscia, il significato ultimo di quella simbolica rappresentazione. Vedere quei corpi così leggeri ruotare con una mano rivolta verso il macrocosmo (il Cielo) e l’altra verso il microcosmo (la Terra) mi proiettò verso un’altra dimensione. Una dimensione dove gli affetti ed i dolori non esistevano più ma esisteva solo la gioia di un eterno presente, fatto di spazio infinito e di infinite possibilità. Attesi invano l’uscita del ragazzino. Mi dissero che non c’era nessun ragazzino ma che quello che avevo visto io era solo la proiezione del giovane derviscio che avevo dentro.
© Malleus Philosophorum