Il Corpo delle Donne
di Chiara Mazzei
Il vaso che, secondo la mitologia racchiude tutti i mali del mondo, è un dono di Zeus ad una donna, Pandora. Curiosa ed impaziente la giovane e bellissima creatura non tarderà ad aprire il vaso e condannare il mondo all’infelicità.
Nella cultura ebraico-cristiana è una donna che, anche qui, curiosa e seduttrice, costringerà il primo uomo al peccato di onnipotenza, quella Eva a causa della quale ogni vivente sarà mortale.
Da qualunque angolazione approcciamo, in Occidente la donna è culturalmente concepita come paradigma pericoloso di complessità emotiva e fragilità intellettuale, anche negli ambienti tendenzialmente più progressisti, purtroppo, è, più o meno inconsciamente, diffusa l’abitudine ad una percezione profondamente sessista che facilmente emerge nell’uso improprio linguistico e, da una legislazione che ancora pone taluni Paesi come l’Italia, in uno stato di drammatica arretratezza nel campo della parità di genere.
Il drammatico momento storico che tutti stiamo affrontando non ha fatto altro che accentuare e divaricare oltremodo questo squilibrio esistenziale e culturale che sottende alla nostra società e che, per fortuna molte donne, intellettuali, militanti attive e artiste, da tempo reclamano come spazio politico di discussione.
Il tema di “genere” è, senza alcun dubbio, accanto al tema ecologico, la questione cardine per iniziare ogni tentativo di comprensione del reale. Durante l’isolamento di questi mesi alle donne è stato tacitamente inflitto il peso dello sradicamento sociale e lavorativo, altrettanto tacitamente le è stato affidato il ruolo unico di gestione genitoriale, comprensivo dell’accudimento di prole e casa, il tutto talvolta convivendo con il carnefice di sempre. I dati della Polizia di Stato, raccolti da febbraio a maggio, rivelano una flessione consistente delle denunce per molestie sessuali, oltre l’ostacolo culturale, oltre la paura della ritorsione fisica, è giunto il silenzio tombale di una quarantena a costringere molte donne alla convivenza forzata con il proprio orco. Ma c’è di più, le rilevazioni statistiche dei sindacati, sempre nel periodo che va da febbraio 2020 a inizio maggio, ci mostrano che la mannaia della perdita di occupazione colpisce molto più le donne che gli uomini, già contrattualmente più fragili, in tempi non Covid, dati aggiornati al 2020 ci evidenziano che il gap retributivo si aggira intorno ai 2700 euro per un ruolo dirigenziale, quando, raramente, una donna riesce ad accedervi.
Secondo il Global Gender Gap Report 2020 del World Economic Forum, per la parità di genere dovremo aspettare circa cento anni (99,5 per la precisione) e 257 anni per la parità a livello di accesso alla partecipazione economica. Questo il dato globale. L’Italia si colloca al 76esimo posto su 153 Paesi, nel Bel Paese lavora solo poco meno di una donna su due e il tasso scende ulteriormente se parliamo di donne con figli. Ma, il mondo del lavoro è solo uno, forse il più palese, dei luoghi dove la contraddizione sul tema di genere emerge con maggiore chiarezza.
Molto poco, o quasi nulla, viene detto e discusso della quotidiana e assolutamente introiettata prassi di considerare e descrivere la donna come involucro funzionale atto al conferimento di un puro senso estetico o di addobbo capace di generare incrementi di profitto, insomma una merce tra le merci che genera un plusvalore sconosciuto al corpo degli uomini! Durante la guerra civile combattuta in Italia tra repubblichini e partigiani (1943-1945) poco si sa del ruolo, fondamentale e tragico, svolto da donne, direi femministe, spesso inconsapevoli pioniere, che, da entrambi i lati, sacrificarono se stesse, la propria gioventù, con tutto il corredo di speranze (unico tra i mali di Pandora a rimanere sul fondo del vaso, liberato solo in un secondo tempo!) e progetti ad essa correlate, immolandosi per una causa, un’idea, una interpretazione dell’esistenza. Che si fosse dalla parte giusta o sbagliata sta di fatto che tra le ausiliarie fasciste le vittime furono circa 300, tra le partigiane 4635 torturate,2750 deportate in Germania e 623 fucilate o cadute in combattimento, tra queste, quasi tutte furono violate nel corpo, prassi praticamente assente nei prigionieri maschi. Jolanda Crivelli, ausiliaria, ha solo vent’anni quando viene catturata dai partigiani, torturata, violentata, legata ad un albero e fucilata, con il corpo nudo lasciato esposto per due giorni. Irma Bandiera, staffetta partigiana, uccisa dopo sette giorni di tortura e il suo corpo viene lasciato in vista per l’intera giornata. Femminismo nero o democratico, il corpo delle donne è comunque violentato, calpestato, come punizione aggiuntiva ad un nemico che oltre che ideologico ha l’onta di essere “femmina. Il corpo delle donne non è mai uno spazio neutro.
Nel secolo ante guerra l’approccio non era migliore.
1863, Manet provoca e cerca la reazione scandalizzata della borghesia francese con il suo lavoro “Colazione sull’erba” causa del turbamento è un nudo di donna, non di Dea, non di Madonna, di donna borghese nuda tra uomini vestiti e perfettamente a loro agio, sarebbe stato conturbante allo stesso modo un borghese nudo maschile? Paradossalmente a questa domanda la storia darà risposta il dieci maggio 2020 quando, in un caldo primo pomeriggio romano, viene restituita al suo Paese, alla sua famiglia e alla sua vita, la giovane cooperante milanese Silvia Romano, dopo 18 mesi di prigionia e, la sensibilità e l’attenzione italiana, è tutta concentrata solo ed esclusivamente su quel corpo di donna, senza forme evidenti, senza tratti di sensualità, quel corpo coperto in modo a noi inusuale, mascherato a scimmiottare culture e Paesi lontani, nemici inferiori dal lontano 1911 quando il focus era la Libia, nel 1935 toccava all’Etiopia, oggi il più ampio Medio Oriente, ovunque esso sia, quel corpo di donna non può osare esistere perfettamente a suo agio tra i nostri abiti borghesi, questo ci turba, ci indigna, ci scandalizza e lo fa perché è donna!
Maggio 2020, ancora il corpo delle donne insultato, oggettivato, messo a giudizio, ancora bisogna serrare le fila e insegnare alle giovani donne la risposta da opporre a nuovi e vecchi Creonte, giudicanti e inutilmente vinti da finti rimorsi:” Sono nata per condividere non l’odio, ma l’amore.” Antigone è il modello, tragico, che segna l’unica narrazione possibile, disporre del proprio corpo come spazio politico, come racconto d’amore non trattabile, lei con risoluzione estrema, la nostra giovane Silvia con quel suo chiedere parole d’amore e non di odio, a conferma di un suo totale atto di consapevolezza rispetto al dominio e alla disposizione del suo sé.
Questo esempio, non unico, però ancora troppo raro, di apologia di genere ci ricorda la necessità di un internazionalismo femminile, dispensatore non dei mali rinchiusi nel ventre vendicativo della divinità, né tantomeno tentatore spietato dell’immortalità, quanto piuttosto ponte verso ciò che Marcuse scriveva già intorno alla metà degli anni sessanta “l’emancipazione femminile è un fattore decisivo nella costruzione di una vita qualitativamente migliore”.
Questa “costruzione” è e deve essere un atto politico, poichè politica è la violenza che viene inferta alle donne, poiché politico è il corpo delle donne.